Ilaria Marelli Design

AMA LA LUCE E PROGETTA LE OMBRE. GLI SPAZI CHE LA EMOZIONANO, SONO QUELLI CHE "SUONANO" BENE E CONFESSA CHE PROGETTARE, LA RENDE FELICE .
Ilaria Marelli è uno spirito gentile del design italiano. Con delicatezza e sensibilità dialoga e progetta oggetti di uso quotidiano, come lampade, tavoli, divani, letti legati ai più importanti brand del design contemporaneo: Cappellini, Ethimo, Foscarini, Nemo, FIAM, Zanotta per citarne alcuni. Della laurea in design dei servizi, discussa al Politecnico di Milano con il Professore Ezio Manzini, le è rimasta l’attenzione alle persone e all’interazione con lo spazio, che ha messo in evidenza, negli allestimenti curati per i brand con cui collabora, tra cui anche Pitti. 
Giulio Cappellini, suo mentore e primo committente la introduce nel mondo del prodotto industriale e dell’art direction. All’ultimo Salone del Mobile è stata protagonista di diverse installazioni, tra le quali “Donne & Design” curata da Silvana Annicchiarico a Superstudio. 
Oggi il suo studio, che ha sede a Como, si occupa di art direction, design di prodotto, consulenza strategica e allestimenti. Vincitrice del premio “Milano Donna” nel 2008 e dell’ “AlumniPolimi Award” 2015 per l’Architettura. Molti tra i suoi lavori sono pubblicati su scala internazionale in art books e testate di settore.

Dopo averla incontrata, e ascoltata, in occasione del webinar “perché la parola decoro fa paura” durante Viscom Italia 2021 LIVE+DIGITAL, siamo rimasti affascinati dal suo approccio progettuale. 

Per conoscerla meglio, le abbiamo posto qualche altra domanda.


Si dice che il successo del design italiano, risieda anche nella formazione da architetto, che lega la visione del prodotto a quella dello spazio. 

Ti ritrovi in questo approccio? 

Sì, sicuramente. Del resto faccio parte dell’ultima generazione, che ha studiato da architetto per poi lavorare anche da designer. In effetti era una formazione che ha forgiato designer del calibro di Castiglioni, Magistretti, Zanuso e Bellini per citarne alcuni. Dalla facoltà di Firenze, sono uscite personalità eclettiche come Andrea Branzi, con cui ho collaborato proprio negli anni della nascita della Scuola del Design del Politecnico di Milano, e che tra gli anni '70 e '80 è stato protagonista di alcune delle correnti del design più interessanti di sempre, come Memphis, Alchimia e gli Archizoom. 

Oggi, invece, i designer si formano nelle scuole di design, dove ulteriori specializzazioni, hanno dato vita a diversi indirizzi come design del prodotto, della comunicazione, degli interni, web-design, spatial design… Questo porta certamente ad una maggiore preparazione specifica, però forse un po’ si perde quella visione d’insieme, quel “dal cucchiaio alla città” della celebre frase di Nathan Rogers che sottolineava, negli anni ’50, l’onnipresenza della progettazione a tutte le scale. Gli oggetti, gli spazi, le persone devono interagire tra di loro ed è difficile per me, ragionare e progettare per compartimenti stagni.


Sui social ti si vede spesso impegnata in shooting fotografici: fa parte anche questo della tua “visione d’insieme”? 

Assolutamente sì. Oggi più che mai, l’immagine fotografica del prodotto finito è fondamentale per la sua promozione e per la sua narrazione. L’art director è il ruolo in cui mi ritrovo di più, proprio per questa attenzione trasversale a tutto il processo: dall’ideazione alla produzione alla comunicazione del prodotto. In alcuni casi, anche la modalità di distribuzione, diventa un tema di progetto. Viviamo in un mondo contemporaneo saturo di prodotti, in cui bellezza e funzionalità non sono più sufficienti a determinarne, se non il successo, anche solo la permanenza sul mercato. Curare e coordinare con attenzione tutte le fasi di vita del prodotto, dà la possibilità di presentare al pubblico il progetto per come lo si è pensato, arricchendo forma e funzione con una narrazione.


Nelle installazioni a Pitti, come hai spiegato durante il webinar, hai “azzardato” nell’uso di colori e decori, per una naturale propensione alla sperimentazione della moda. 

Secondo te, perché nell’interior prevale ancora il tutto bianco o il greige: desiderio di calma o paura di sbagliare? 

Innanzitutto va detto che c’è una questione culturale, che influisce nell’uso del colore e della decorazione: noi Italiani siamo forse più per la sobrietà rispetto, ad esempio, al popolo anglosassone, che ritrova nelle carte da parati floreali un tratto identitario. Poi c’è anche un tema di ciclicità: se ripensiamo alle decorazioni optical degli anni ’70 anche noi Italiani abbiamo fatto la nostra parte! Dopo gli anni delle contestazioni studentesche, dell’uso di stupefacenti e di battaglie per i diritti delle donne, abbiamo vissuto un’altra epoca iper-colorata, che è stata quella degli anni ’80. Forse è stato fisiologico, dopo tanto “chiasso” desiderare la calma proposta dal minimalismo. 

Oggi però, dopo trent’anni di calma, emerge un nuovo desiderio di “vivacità”: gli interni più di tendenza fanno un ampio uso del colore, spesso anche forte. Nelle case private c’è un po’ più di inerzia, ma come per tutti i trend, c’è chi li anticipa, chi li coglie nel momento di massima diffusione, chi aspetta l’onda lunga e chi se ne estranea del tutto.

Sappiamo che ami molto lavorare con la luce. Questa sembra essere, peraltro, l’unico elemento capace di assecondare i nostri mutevoli stati d’animo. 

Credi sia l’architettura a dover andare incontro ai bisogni delle persone o sono le persone che devono adattarsi agli ambienti?

Il tema della luce per me è molto importante: la mia carriera è iniziata disegnando lampade. L’aspetto che mi ha sempre conquistata, è il connubio tra la fisicità dell’oggetto lampada, con la sua forma, il materiale, il peso e la componente emozionale, la luce in sé, che è, invece, qualcosa di leggero e impalpabile, che si propaga nello spazio, modificandone la percezione. Quando curo gli allestimenti, scegliere il colore della luce, l’intensità è fondamentale per creare un coinvolgimento e suscitare delle emozioni. Spesso dico che più che progettare la luce, vanno progettate le ombre! Non c’è nulla di più sbagliato di un ambiente totalmente e perfettamente illuminato e uniforme. Creare un’alternanza di luce e di ombre, di oggetti in evidenza e altri da svelare, è spesso quello che suscita le emozioni. 

Rispetto alla domanda, tra persone e architettura, chi deve adattarsi a chi, in generale penso sia l’architettura a dover andare incontro ai bisogni delle persone. Se avviene l’inverso, se sono le persone a doversi adattare agli spazi, forse più che architettura si sta facendo della speculazione edilizia, nel senso più ampio del termine.

Pitti Bimbo Apartment, 2019.
Exhibit design Pitti fashion show

Qual’è la qualità di un ambiente, che ti fa stare bene e perché? 

Il ritmo dell’ambiente. Come ho detto poco fa, la luce, nell’alternare luci e ombre, crea un ritmo. Anche quando progettiamo uno spazio, noi disegniamo i pieni (i muri, gli arredi) per delimitare i vuoti, che in realtà noi abitiamo. Il rapporto tra pieni e vuoti è di nuovo un’occasione per creare un ritmo nello spazio. Non solo, uno spazio vuoto, a seconda che sia lungo, largo, alto o basso, aldilà dell’impatto visivo, che tutti noi architetti conosciamo, produce un effetto sonoro differente. Ricordo quando da neo-laureata sono andata per la prima volta alle Terme di Vals, progettate da Peter Zumthor. Ricordo la primissima sensazione di uno spazio che “suonava bene”: il tintinnio dell’acqua, che scrosciava negli immensi volumi, era bello. C’erano delle stanze, in cui l’acustica era talmente incredibile, che ti veniva quasi voglia di cantare, un po’ come nelle chiese. Per cui, se mi chiedete qual è lo spazio che mi fa stare bene, la mia risposta è lo spazio che ha i giusti ritmi tra pieni e vuoti, tra luci e ombre e che suona bene.


Un’ultima domanda, un po’ alla Marzullo… 

Qual’è la domanda che vorresti ti fosse fatta, che nessuno ti ha mai fatto? Progetti perché sei felice o sei felice perché progetti? 

Certamente la seconda! Progettare trasporta in un’altra dimensione, in un altro universo e questo può essere catartico, soprattutto nei momenti di difficoltà. Potersi estraniare dal proprio quotidiano per immergersi in un nuovo contesto è un processo meditativo, che aiuta e rende felici, soprattutto per chi, come nel mio caso, ama questa professione.

Qui la replica di Viscom Live 2021 LIVE+DIGITAL Webinar

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